Ha ragione Giuliano Pisapia. Le assoluzioni di Ignazio Marino e di Roberto Cota erano un’occasione per aprire un dibattito sulla giustizia. Anche perché seguivano, a distanza di qualche settimana, la vicenda di Ilaria Capua che ha lasciato ancora più sconcertata la pubblica opinione e ha portato una scienziata di grande autorevolezza a lasciare l’Italia.
Però, sarebbe fuorviante affrontare la questione nell’ottica delle polemiche fra mondo politico e ordine giudiziario. Se ci sono malfunzionamenti nella giurisdizione, è tutta la società a risentirne le conseguenze ed è doveroso concentrare l’attenzione non sul rapporto fra magistratura e politica, bensì sull’impatto che le incertezze e le contraddizioni della giustizia producono sui diritti dei cittadini e sul sistema produttivo.
La discussione, inoltre, non può essere solo un elenco di buone intenzioni e di considerazioni pregevoli sul piano dottrinario. Deve, invece, essere orientata a ricercare soluzioni idonee sul piano normativo a rendere il sistema giudiziario più in sintonia con le esigenze della comunità nazionale.
La premessa, scontata, è che in linea teorica non c’è nessuna anomalia se un processo si chiude con un proscioglimento o con una archiviazione.
Il sistema giudiziario italiano è basato sulla obbligatorietà della azione penale e sulla verifica delle prove in dibattimento. È normale che ci siano rinvii a giudizio seguiti da assoluzioni e che ci siano sentenze di primo grado non confermate in appello o in cassazione.
Però, anche se la dialettica processuale è fisiologica, quando i contrasti fra i diversi provvedimenti appaiono troppo frequenti e troppo stridenti gli effetti negativi sulla credibilità della giustizia e delle istituzioni sono inevitabili.
I principi del giusto processo sono stati costituzionalizzati con la legge del 1999 che ha introdotto il nuovo art. 111 e assicurano che la verità processuale sia aderente, quanto più possibile, alla realtà.
Ha ragione, quindi, chi sostiene che il sistema giudiziario funziona e che non sono necessarie grandi riforme.
D’altronde, le polemiche sulle sentenze definitive sono molto rare. Sono, invece, frequenti le critiche sulle fasi precedenti e soprattutto sulle indagini preliminari e sui provvedimenti connessi quali avvisi di garanzia, perquisizioni, intercettazioni, misure cautelari personali e reali e rinvii a giudizio.
Il problema è che, data la durata anomala dei processi, un proscioglimento interviene dopo anni, quando le ricadute sulla vita degli indagati del provvedimento riformato o annullato si sono già consolidate e i danni – sul piano personale, sociale e professionale – non sono più sanabili.
Il discorso vale anche per le aziende che, talvolta, sono colpite in modo irreversibile da provvedimenti cautelari i cui effetti si sono già prodotti quando viene pronunciata la sentenza sul fatto che ha dato luogo al processo.
Se è vero, quindi, che non sono necessarie riforme di sistema, è anche vero che sono urgenti modifiche mirate, finalizzate ad abbreviare i tempi di verifica da parte di un giudice sulla fondatezza della azione penale alla luce degli elementi raccolti nelle indagini preliminari.
Al riguardo non bisogna inventare niente, in quanto la verifica è già prevista ed è l’udienza preliminare, la quale, però, è depotenziata dalla normativa vigente che condiziona e limita il potere del Giudice di valutare la posizione dell’indagato.
Il GUP, infatti, in base all’art. 425 del codice di procedura penale, pronuncia sentenza di non luogo a procedere “quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.
Formula che differisce in modo sostanziale dall’art. 533 che riguarda il dibattimento, in base al quale “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”.
È evidente che c’è un numero rilevante di indagati che non risultano colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, per i quali, però, ci sono elementi idonei per sostenere l’accusa in giudizio.
La norma non è coerente con l’impianto complessivo del sistema processuale in quanto gli elementi a carico dell’imputato sono, salvo casi particolari, molto più forti al termine delle indagini preliminari che sono state condotte, in via sostanzialmente esclusiva, dalla Procura che al termine del dibattimento nel corso del quale le prove sono sottoposte al vaglio del contraddittorio con l’intervento attivo della difesa.
Quindi, se un soggetto non è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio in udienza preliminare difficilmente potrà diventarlo nella fase del dibattimento.
Inoltre, sotto il profilo ordinamentale, è sicuramente anomalo che un giudice venga chiamato ad esaminare la posizione complessiva di un imputato ma non possa esprimere un giudizio sulla sua colpevolezza e debba limitarsi a valutare se ci sono gli elementi per sostenere l’accusa in giudizio.
Gli effetti negativi di questa normativa sono due.
Il primo riguarda l’indagato per il quale il rinvio a giudizio è pressoché scontato, a meno che non sia lo stesso Pubblico Ministero a chiedere l’archiviazione.
Il secondo riguarda il sistema giudiziario, in quanto l’udienza preliminare così concepita trasforma quasi tutte le indagini in processi. Ne deriva un ingolfamento delle aule di giustizia con conseguente allungamento dei tempi e minacce incombenti di prescrizioni.
La situazione, nonostante sporadiche fasi di miglioramento, si aggrava sempre di più.
Cito solo le ultime notizie. A Napoli i dibattimenti vengono fissati a diciotto mesi dalla data del rinvio a giudizio. A Bari il procuratore della Repubblica ha inviato una lettera di accusa ai giornali definendo scandalosi i tempi dei processi e imputando al governo le gravi carenze di organico che impediscono una tempestiva celebrazione dei dibattimenti.
Da questa analisi discende una ipotesi di soluzione che mi riservo di tradurre in una proposta di legge: dare al Giudice dell’udienza preliminare gli stessi poteri del Giudice del dibattimento.
Con questa modifica l’esame del GUP sarebbe fondato su una analisi compiuta degli elementi a carico degli imputati, si ridurrebbe l’ingolfamento dei Tribunali con effetti positivi sulla durata dei processi, diminuirebbe il numero dei rinvii a giudizio seguiti da sentenze di proscioglimento. Probabilmente, con una normativa del genere non ci sarebbero stati né i casi Marino, Cota e Capua, né tanti altri casi di imputati sconosciuti – le cui vicende, però, sono altrettanto importanti che quelle di personaggi illustri – che sono rinviati a giudizio e vedono riconosciuta la loro innocenza a distanza di anni.
Ci sarebbero ricadute positive anche sul lavoro delle Procure che chiederebbero l’archiviazione quando gli elementi raccolti a sostegno dell’accusa sono fragili (cosa che, oggi, in base alla normativa vigente, non possono fare) e potrebbero concentrarsi maggiormente sui procedimenti per i quali, invece, l’impianto accusatorio è più solido.
Ne guadagnerebbe, soprattutto, la credibilità della giustizia che è un bene prezioso, in quanto è una delle premesse fondamentali della fiducia dei cittadini nello Stato democratico.